Nascoste nella valle di Kathmandu, donne ricurve coperte di veli distruggono a frammenti le pietre del fiume Agarakhola, mentre il sole sorge e tramonta davanti a loro. Accade in Nepal, nel distretto del Dadhing. Scendono la valle del fiume a piedi nudi, per riempire di pietre un grosso cono di bambù caricato sulle loro spalle. Circondate da bambini bruciati dal sole, tornano poi a sedersi sulla riva. Rovesciano il cono di bambù e ricomincia il suono argentino di un martello picchiato sulla pietra.In un paese in cui la disoccupazione è al 42%, da decenni intere famiglie migrano in questa valle a pochi chilometri dalla capitale; sono la fortuna dei tekadar, broker edilizi che comprano i frammenti di pietra dalle loro mani callose per poche rupie. Se quasi un terzo dei nepalesi è sotto la soglia di povertà, facile immaginare il compenso pattuito: 12 rupie (meno di 20 centesimi di euro) ogni 15 chili di pietre frantumate. Una comunità dove il tempo sembra essersi fermato, imprigionandola nei gesti monotoni del lavoro primitivo dello spaccapietra.
Così, mentre gli uomini trasportano sacchi di pietre ai loro stessi sfruttatori, donne e bambini passano le giornate e frantumare il letto pietroso del fiume. Per poi addormentarsi in baracche o tende di plastica sulle sponde dello stesso corso d’acqua che è per loro casa e lavoro. Quando Barbara Monachesi – nepalese da sedici anni e presidente della Onlus Apeiron – ha visto la baraccopoli di tende blu scuro dal ponte del fiume Agarakhola, la loro situazione di sfruttamento è subito stata chiara. “La giornata lavorativa è di 13 ore, non ci sono servizi igienici, oltre il 70% della comunità è analfabeta mentre quasi la metà dei bambini non va a scuola”.
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